Dopo le ultime presentazioni di libri torniamo a proporre una conversazione “tra amici” su questioni di attualità politica. Questa volta la nostra gradita ospite sarà Lina Caraceni, che insegna procedura penale e diritto penitenziario all’Università di Macerata.
Lo spunto per organizzare l’incontro viene dalle note sentenze della CEDU e della Corte costituzionale che hanno segnato dei punti fermi sulla questione dell’ergastolo ostativo. Sentenze di questo tipo non vanno semplicemente a modellare l’ordinamento, che nella sua plasticità si evolve in relazione spesso dialettica con la società che cambia, ma indirizzano profondamente anche il dibattito su alcune questioni fondamentali della politica e della democrazia. In questa sede vorrei soltanto prospettare qualche appunto per segnalare l’importanza della questione e non mi soffermo sul contenuto dei provvedimenti (per un veloce ripasso: http://www.ristretti.it/commenti/2019/ottobre/pdf7/comunicato_consulta.pdf ; https://ilbolive.unipd.it/it/41bis-marcello-viola-ricorso-corte-diritti-umani ).
Queste due sentenze in parole povere dicono (in realtà ribadiscono) che l’ergastolo c.d. ostativo è contrario ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Costituzione italiana. L’argomento principale con cui si esprimono dubbi nei confronti dei principi che emergono da queste prese di posizione è che in nome di un ideale giuridico che pecca di eccessiva astrazione si finisce per eliminare la deterrenza della pena e fare un favore a mafiosi e criminali. Questa obiezione secondo cui i principi vanno calati nella realtà quotidiana con somma cautela fa molto breccia su ampi settori dell’opinione pubblica.
Il dibattito attorno alla legittimità o meno della pena dell’ergastolo è molto ampio e non se ne può dar conto in questa sede; ma tale obiezione è del medesimo tipo di quelle che problematizzano provvedimenti che riguardano istituti come il reato di tortura (come reato proprio, un po’ diverso dall’ibrido recentemente impiantato nel nostro ordinamento), i numeri identificativi sulle uniformi degli incaricati dell’ordine pubblico, le presunzioni in tema di legittima difesa e così via.
E’ proprio sulle presunzioni che forse bisognerebbe ragionare, perché il ragionamento finisce per depositarsi sull’opportunità o meno di tutelare l’autorità pubblica o l’autorità giudiziaria dalla responsabilità per le azioni che compie come longa manus dello Stato e ricondurre questa responsabilità direttamente alla legge ed a scelte politiche. L’agente, sia esso un giudice o un poliziotto, viene derubricato rispettivamente a bocca e braccio della legge in nome del principio di legalità (quanto allo strumento della tutela del cittadino), oltre che in nome della prevalenza del principio della sicurezza su quello della dignità dell’uomo (quanto a finalismo, ma su questo tornerò più sotto). In questo modo l’abuso non è evitato (anzi) ma disinnescato da un punto di vista sistematico.
Ma esiste davvero questa contraddizione tra garantismo e tutela della legalità e dell’ordine pubblico? Direi di no, quantomeno nel senso che non si tratta di legalità o di sicurezza se non vale per tutti e per ciascuno, e quindi anche per il Cucchi o per il Pinelli di turno. O per Totò Riina. Una precisazione che può risultare indigesta, e lo è ancora di più se si aggiunge che questa è un’esigenza “pratica”.
Il sacrificio del singolo in nome dell’interesse collettivo introduce nell’ordinamento un’eccezione che è in contraddizione col fondamento su cui poggia l’ordinamento stesso, dall’invenzione dell’habeas corpus in poi; ma forse dovremmo dire dall’invenzione del principio di legalità, già con la legge del taglione e già con l’insediamento del primo giudice, che disinnesca la vendetta privata e la faida.
Va anche inteso che questa faccenda di dove fissare il confine mobile tra il potere dello Stato e quello dell’individuo (la sua “libertà”) taglia trasversalmente la distinzione tra destra e sinistra e riguarda piuttosto, anche da un punto di vista storico, la questione della democrazia e della dicotomia tra popolo e individuo (tra il bene del popolo, qualunque cosa esso sia, e l’intangibilità della vita ed della dignità personale). Ed è presente non solo in politica ma anche nelle religioni perché rimanda alla regola d’oro, intesa non come semplice massima della reciprocità (do ut des), ma come impegno unilaterale sul quale si fonda la possibilità della vita associata. In questo senso, se sposiamo un’etica ed un diritto “del sacrificio” imposto in un orizzonte di reciprocità e non inteso come donazione unilaterale, la dignità e il valore assoluto dell’individuo soccombono di fonte all’esigenza di sicurezza collettiva.
L’etica del sacrificio e della reciprocità, se applicata a livello di principio, genera la fuoriuscita dall’impianto costituzionale ed è improntata al rispecchiamento di una matrice “terroristica” dell’agire politico, dove la reciprocità torna a configurarsi come vendetta. La reciprocità assolutizzata sfora dai confini posti dal principio di legalità a tutela di ogni singolo soggetto come tale, con un’identità originale (e dunque questo sì valore assoluto) e non come parte contingente e sostituibile di una collettività nella quale si identifica e dalla quale mutua per intero la propria identità. E qui torniamo a bomba, cioè all’idea per cui nessun uomo può essere ridotto alla definizione di mafioso o drogato o terrorista o anarchico altro, in quanto la categoria non lo esaurisce e invece lo fa diventare strumento di una politica, uno strumento retributivo nel contesto di un baratto. Ma appunto il nostro stare insieme, e dunque il nostro ordinamento, si basano anzitutto sul riconoscimento del valore della dignità umana e sul fatto che l’uomo non può essere considerato strumento ma deve essere considerato un fine.
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Samuele Animali